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Intervista a Gianni Perini

Aperto da Filippo, 03 Novembre 2011, 22:44:43

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Filippo

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Gianni Perini

Cento chilogrammi di grinta compressi in un metro e 68, Gianni Perini ha passato gran parte della sua vita fuoristrada. Prima lungo le mulattiere della regolarità (o enduro), così simili a quelle della sua terra, la Bergamasca, poi nei deserti africani. Ma non in moto. È infatti stato commissario tecnico della Nazionale di regolarità, che ha guidato alla conquista della Sei Giorni a squadre. Anno: 1979. Luogo: Germania, la tana del leone. L'ultima vittoria era del 1941: dopo 38 anni l'Italia tornò a trionfare nel massimo appuntamento dell'enduro. Una vittoria replicata nel 1980 e nel 1981. Poi Perini, vera forza della natura, nato a Bergamo il 22 febbraio 1934, ha cambiato rotta ed è sbarcato in Africa, come direttore sportivo della squadra Gilera, con la quale ha partecipato alle maratone del deserto, senza mai vincere una Parigi-Dakar ma vincendo un Rally di Tunisia (Luigi Medardo, Gilera RC 750, 1992) e un Rally dei Faraoni (Franco Picco, Gilera RC 750, 1992). Burbero fino a un certo punto, una volta chiusa l'avventura agonistica della Gilera nei rally-raid, Perini si è dedicato alle relazioni pubbliche.

Gianni, cominciamo da lontano: qual è la prima cosa che ti viene in mente dicendo la parola moto?
Strano, è la bicicletta. Perché la mia prima esperienza nel mondo delle moto l'ho fatta pedalando su una bici. Avevo 16 anni e avevo appena cominciato a lavorare. Facevo parte dell'organizzazione del Valli Bergamasche e mi assegnarono un bivio da tenere sotto controllo. La gara passava alle otto di mattina, io mi presentai alle sette con una radiolina sotto braccio e la bandierina del Motoclub Bergamo. Mi sembrava di toccare il cielo con un dito.

E poi?
I primi guadagni del mio lavoro alla compagnia statale dei telefoni, che allora si chiamava Stipel, mi servirono per comprare una Vespa in società con mio fratello, subito seguita da una Rumi e infine da una Mival da regolarità. Con quest'ultima cominciai a correre, e in un certo senso da allora non ho più smesso.

Perché hai cominciato a correre?
Perché a Bergamo in quell'epoca la moto era tutto. Il Valli Bergamasche per noi era il massimo: soltanto sognare di farla e portarla a termine, a quei tempi era già un premio. Farla davvero e arrivare in fondo era proprio la fine del mondo. Basti pensare che il Motoclub Bergamo nei suoi anni d'oro ha avuto anche tremila iscritti.

Cosa mi dici di Bergamo e la moto?
Mi viene da ridere quando dicono: "Romagna, terra di motori". Se la Romagna è la patria della moto, allora noi siamo il pianeta della moto. Chi più di Agostini nella velocità. Chi più di De Petri nei rally africani? Chi più di Gritti e compagnia nel cross? Chi più di Bosis nel trial? E son tutti bergamaschi.

La regolarità è uno sport da duri?
È uno sport di carattere. Perché guidare la moto su una mulattiera non è da tutti. E ti devi inventare il percorso curva per curva. Lì la moto la guidi veramente: alla fine della giornata ti sei fatto 200, 300 chilometri in fuoristrada. Nel 1958 andai in Cecoslovacchia per partecipare alla Sei Giorni: avevo il numero uno, ero il primo a partire. Scattai alle cinque di mattina e arrivai al traguardo, dopo 600 chilometri, alle nove di sera.

Alzarsi che è ancora notte, mangiare la polvere, spingere la moto sulle mulattiere: perché tutto ciò?
L'obiettivo è raggiungere il traguardo, costi quel che costi. Un concetto forse un po' bergamasco, perché siamo gente volitiva. D'altronde raggiungere il rifugio Magnolini o sulle Torcole con le moto di allora, che non avevano praticamente sospensioni e andavano come andavano, era davvero un'impresa.

Quanto hai dovuto spingere la moto nella tua carriera di pilota?
Tanto. Mi ricordo una gara in Austria in cui correvo con una Capriolo 75 a quattro tempi che aveva solo sei cavalli: bisognava passare sulla più alta cima d'Europa, ed eravamo tanto in alto che quel motorino non andava più, aveva la carburazione ko, e ho dovuto spingere per almeno cinque o sei chilometri. E allora io ero 57 chili, non cento come adesso. Ma era tutto a essere diverso: pensa che una volta misi una Gilera 98 nella mia Fiat 500 e andai a correre a Roma una prova di Campionato italiano. Era una cosa, diciamo così, spontanea.

La gara più difficile?
Alcune edizioni del Valli Bergamasche, una gara che sapeva essere tremenda. Parteciparvi dava diritto a dire: io sono un motociclista vero.

E vincerlo?
Era come diventare un asso del calcio, un imperatore dello sport.

Qual è il tuo bilancio di una vita con la moto?
Tante amicizie e tanti bei posti visitati.

Quindi la moto ti ha cambiato la vita?
Eccome. A 23 anni avevo un buon posto di lavoro ma non mi lasciavo il tempo di andare a correre. Mia madre mi vedeva sempre triste e un giorno mi disse: "Senti, fai una bella cosa: stai a casa, corri in moto, prenditi questa soddisfazione e poi vedremo". Così divenni pilota professionista. Prendevo 50 mila lire di stipendio nel 1955, cioè niente, ma a casa il piatto di minestra c'era sempre. Arrotondavo andavo a vendere caramelle. Poi feci il venditore d'auto prima presso un concessionario e poi, per una decina d'anni, alla Fiat. Nel 1968, dopo essere arrivato ottavo nel Campionato d'Europa ed essere diventato il primo italiano a entrare in classifica nell'Europeo, smisi di correre. Fu nel 1972 che arrivò la svolta della mia vita, quando la Gilera mi chiese di organizzare la sua squadra corse per l'enduro e in due anni vincemmo tantissimo.

E poi?
Dopo la Gilera feci il direttore sportivo per la DKW e per l'importatore italiano della KTM, Farioli: dieci anni con lui. Negli anni Ottanta la Piaggio mi ha richiamato, per tentare la fortuna con il marchio Gilera nei rally africani, e abbiamo vinto anche lì. È stata l'ultima tappa di una vita tutta in salita, perché io ero venuto dalla gavetta, cominciando come direttore sportivo della sezione del Motoclub Bergamo.

Cosa sognavi di fare da grande?
Diventare Campione del mondo, come pilota. E in un certo senso mi sono realizzato: ho fatto 22 Sei Giorni, sono stato responsabile della Nazionale di enduro per tanti anni, ho vinto tutto, come direttore sportivo. E in anni in cui non esistevano i piloti professionisti come oggi, ma solo gente che smetteva di lavorare il sabato e andava a correre sulle mulattiere. Gente con cui vincemmo la Sei Giorni, gente grazie alla quale Pertini mi fece Cavaliere della Repubblica.

Rimpianti?
Uno solo: non avere vinto la Dakar. Nella vita non si ha mai tutto, e a me è rimasto l'amaro in bocca. Sarebbe stato come fare la cornice al quadro.

Qual è il segreto per non invecchiare?
Stare in mezzo ai giovani.

Cosa vuol dire fare il direttore sportivo?
Significa fare il papà di una grande famiglia, preoccuparsi che i figli non abbiano il mal di pancia, che non manchino loro i soldi in tasca, che facciano il loro dovere.

I tuoi meriti nel motociclismo?
L'avere portato un po' di professionismo in un mondo che non lo era assolutamente. I primi contratti scritti d'ingaggio li ho fatti firmare io, così come i primi stipendi, pochi soldi ma sicuri, e le divise tutte uguali, sempre in ordine.

L'Africa?
Non t'abbandona più, con i suoi problemi e le sue cose belle. Se ci sei stato, vivere qui diventa facile, perché l'Africa ti rende più buono con il tuo prossimo.

Hai ancora qualche sogno nel cassetto?
Attraversare l'Atlantico con la mia barca a vela, anche se non ho più il grip di una volta, di quando ero giovane e non mi teneva nessuno, giorno e notte.

Milano, settembre 1996
Fidatevi di ciò che scrivo, non è farina del mio sacco. O me l'hanno suggerito oppure l'ho visto scritto da qualche parte